Viaggio
Questo che state per leggere è il mio viaggio di fede che ha segnato profondamente una parte della mia vita, dove la Legge Mistica ha inevitabilmente avuto un ruolo determinante.
Mi sono avvicinato alla pratica buddista nel 2012. Era un buddismo diverso rispetto a quello di cui avevo sentito sempre parlare: questo era il buddismo di Nichiren Daishonin (monaco giapponese del 1200) e non era necessario venerare alcun budda sovrappeso o con le orecchie lunghe. Mi dissero “Il budda è ognuno di noi” e questo inizialmente mi sconcertò.
Durante il primo anno ho frequentato solo gli zadankay (gli incontri tra fedeli che avvenivano nelle case dei praticanti due volte al mese) perché ero attratto dalle testimonianze toccanti, dal clima gioioso che permeava ogni incontro.
Punto cardine della pratica era la recitazione del daimoku, un mantra criptico dato dalla ripetizione di Nam Myoho Renge Kyo. Secondo i buddisti questo mantra è un richiamo dello stato di buddità, insito in ogni essere vivente. Questo stato di buddità va ad innalzare inevitabilmente lo stato vitale e fa sì che la persona che recita Nam Myoho Renge Kyo possa diventare una sorta di faro e influenzare l’ambiente circostante.
Ebbene, io non recitavo daimoku perché ero convinto che tutto sommato, anche da non praticante, avessi nel mio bagaglio personale qualità come l’altruismo e bontà d’animo.
Ma era come paragonarsi a Messi solo perché sapevo palleggiare con entrambi i piedi e avevo vinto cinque partite a calcio nel campetto del vicinato.
Tra le altre cose, ero incuriosito dal fatto che la gioventù di Daisaku Ikeda, il terzo presidente della Soka Gakkai – l’associazione culturale che nel corso degli anni ha esportato il buddismo di Nichiren Daishon in tutto il mondo – fosse stata segnata dalla tubercolosi. Dalla nascita, anche io combatto contro una malattia genetica, ereditaria e degenerativa, la fibrosi cistica.
Difficoltà
Ho cominciato a recitare daimoku con costanza quando Silvia, l’allora mia compagna da dodici anni e attuale moglie, ottenne una borsa di studio di un anno in un rinomato istituto di ricerca sulla Fibrosi Cistica al San Raffaele di Milano. Era il lavoro che sognava.
Citando le parole di Ikeda: “Non possiamo sperimentare la «più grande di tutte le gioie» se abbiamo un’inutile paura delle difficoltà e siamo riluttanti ad abbandonare la nostra zona di sicurezza”. La paura di lasciare la Sardegna e del mio precario stato di salute svanirono dopo aver recitato daimoku con grande determinazione. D’altronde era l’occasione che aspettavamo.
In questa corrente del buddismo si prega sia per sé stessi (punto di partenza) che per il conseguimento di obiettivi anche apparentemente utopici come la pace nel mondo (punto di arrivo), ma il fulcro di tutto è ottenere la consapevolezza di essere responsabili nel bene e nel male della realizzazione della propria vita, senza intercessione alcuna di esseri sovrannaturali.
Io e Silvia affrontammo il viaggio per il continente. Qualcosa però non funzionò già da subito. Sono stato ricoverato per una riacutizzazione polmonare nel Centro Fibrosi Cistica Adulti di Milano. Quello sarà solo il primo di numerosi ricoveri. La malattia aveva sferrato un brutto colpo, proprio nel momento in cui ero più fragile. Il rapporto con la direttrice del Centro era molto complicato: nei circa cento giorni di ricovero sparsi nell’arco del 2014 sono state molte le occasioni di scontro tra noi. Capivo che non potevo andare lontano nel mio viaggio.
Nichiren Daishonin scrisse: “E’ come il caso in cui ci si inchini rispettosamente davanti ad uno specchio: l’immagine nello specchio allo stesso modo si inchina rispettosamente davanti a noi.” Applicai uno dei capisaldi della religione, ossia che non bisogna mai demandare la responsabilità di qualcosa all’esterno di sé stessi (quindi agli altri), ma sempre e sottolineo sempre, cercare la causa e la soluzione dentro di sé. Capii che in primis dovevo cambiare il mio atteggiamento nei suoi confronti e in occasione di un mio peggioramento clinico, la dottoressa glaciale si avvicinò ad accarezzarmi la mano e dirmi “Vedrai che ce la faremo”. Questo episodio fu l’inizio di un rapporto medico paziente di reciproca stima e di grande rispetto.
I mesi passarono e Silvia mi parlò del fatto che a lavoro stavano perfezionando una cura che sarebbe potuta essere risolutiva per la mia malattia. In fibrosi cistica ci sono più di duemila mutazioni e ogni paziente ne ha due, una ereditata dalla madre e una dal padre e questo farmaco era indirizzato ai pazienti che avevano i miei due tipi di mutazione.
Consapevolezza
Convinto delle potenzialità della pratica buddista, a luglio 2014 mi venne consegnato il Gohonzon e decisi di provare a recitare per la mia guarigione. Il Gohonzon è una pergamena inscritta da Nichiren Daishon nel 1200; è usuale per i buddisti recitare il mantra davanti al Gohonzon srotolato, tenuto all’interno di un mobiletto. Il Gohonzon non è qualcosa di sacro che viene adorato dai praticanti, ma tra le tante rappresentazioni a me è sempre piaciuta molto quella di uno “specchio” della vita, dove puntualmente il praticante si specchia in tutta la sua umanità.
A fine anno del 2014, il Centro di cura decise di farmi proseguire gli antibiotici in endovena a domicilio a tempo indeterminato a causa delle frequenti e sempre più gravi infezioni polmonari. La pesantezza della malattia cominciava a farsi sentire, assieme alla lontananza dai familiari ed amici.
Tra dicembre e gennaio io e Silvia prendemmo consapevolezza di voler tornare in Sardegna, a Siniscola, da dove mancavo da tredici anni. (continua)
Ciao Pierpaolo, bel inizio di Viaggio. Scopriremo di più anche del tuo rapporto con i medico? Credo sia un punto molto importante.
L’immagine dello specchio è davvero calzante.
Ci vediamo alla prossima fermata
Grazie Alessandro! Ti aspetto mercoledi prossimo!